La figura di Lorenzo Peretti Junior secondo il critico Dario Gnemmi


La figura di Lorenzo Peretti Junior (1871-1953) è complessa sia dal punto di vista artistico che sotto il profilo umano.

Deciso nel volersi dedicare completamente alla pittura, dopo la morte del padre Bernardino (di cui Lorenzo, prendendo spunto da una fotografia, avrebbe realizzato intorno al 1894 uno stupefacente ritratto cézanniano) avvenuta nell’anno 1889, anche Bernardino fu pittore, discendente da una dinastia di artisti (i Peretti di Buttogno) e legato ad uno dei grandi esponenti della cultura pittorica francese radicatasi in Italia e in Valle Vigezzo: Antonio Maria Cotti. Il giovane talento, già naturalmente educato all’arte tra le mura di casa, si iscrisse ai corsi della Rossetti Valentini tenuti dai pittori Cavalli, padre e figlio.
A diciannove anni, nel 1890, Lorenzo Peretti Junior frequentava il primo corso, cui senza dubbio si rifacevano anche i suoi futuri comprimari già formatisi presso l’Accademia montana di Santa Maria Maggiore: primo tra tutti Carlo Fornara (suo coetaneo), Giovanni Battista Ciolina e Gian Maria Rastellini (dal 1889 già pittore indipendente) con il più anziano e poco conosciuto Maurizio Borgnis.
L’amicizia con Fornara, destinata a rinsaldarsi nel corso degli anni, nacque dunque al suono delle parole di Enrico Cavalli, sotto l’insegna di un rinnovamento artistico che, se suscitava i sogni dei giovani colleghi e li faceva fantasticare di successi e di fama, doveva aver imposto al Peretti il sacrificio di una cancellazione pressoché totale degli insegnamenti paterni, in funzione del nuovo e, per molti versi, tirannico insegnamento sostenuto con dedizione da Enrico Cavalli. L'accademismo e la correttezza troppo algida di tanta scuola francese classicista lasciava il posto al segno, alla furia inventiva, al calore sanguigno di quella sintassi unica eppur sempre nuova del Cavalli.
Il rapporto amichevole, cameratesco, instaurato con il coetaneo Carlo Fornara, non doveva intaccare comunque la libertà di scelta artistica di nessuno dei due; restava sottinteso, come in un patto non scritto, che le direzioni del lavoro, le fatiche della ricerca avrebbero avuto (come puntualmente accadde) una piena e completa autonomia.
Fu in un clima di febbrile sperimentazione, di tensioni emotive, di nuove e brillanti scoperte, che trascorsero i due anni di apprendistato presso la Scuola di Belle Arti di Santa Maria Maggiore. Due anni (1890  –  1892) proficui per il giovane Peretti, due anni che ne avrebbero maturato l’ingegno e temprato il carattere; l’artista doveva essere duro, schivo, ma anche estremamente concreto e, soprattutto, d’intelligenza brillante e pronta.
I primi veri interessi del Peretti si manifestarono già con evidenza durante il corso degli studi: gli erano affini i modi di Antonio Fontanesi (fu probabilmente una rivelazione anche per il Peretti, come per il Fornara, la mostra dedicata al pittore di Reggio Emilia dalla città di Torino nell’anno 1892), più vicino alla gestualità libera di Auguste Ravier nel periodo di Morestel; la dinamica materica e costrutta di Adolphe Monticelli, con quelle partizioni dello spazio, quelle geometrie intrinseche capaci di sostituire completamente qualsiasi cognizione accademica di forma dello spazio oggettiva, per aprire ad una soggettività emotiva, poetica, che in ogni caso lasciava aperti spiragli all’elaborazione scientifica della luce e alla percezione coscienziale, veramente sensistica dello spazio.
Curioso e intraprendente nella ricerca, Peretti fu aiutato da Enrico Cavalli a trovare soltanto il centro della sua ispirazione, a riconoscersi e a riconoscere davvero la sua personalità di artista; ultimo allievo in ordine cronologico, ma forse anche il più amato. Tutto sembrava già essere predisposto, e la cultura articolatissima che ne derivò si deve soltanto alla sensibilità straordinaria del giovane pittore. Il Cavalli parlava di storia della pittura e faceva sperimentare le grandi novità, faceva rivivere emozionalmente le scelte cromatiche degli antichi: Veronese e Tiziano, Tintoretto e Tiepolo, sempre riletti attraverso il filtro di Delacroix, che gli giungeva integro nella lettura molto raffinata di Guichard, cui doveva anche la conoscenza di Rembrandt e delle sintetiche intuizioni italianizzanti di Rubens.
Certo, il Cavalli non poteva non trasmettere ai propri allievi i valori estetici ed emozionali dell’impressionismo (il suo contatto pressoché costante con gli ambienti francesi favoriva senz’ombra di dubbio quest’ultima valutazione di merito), ma altrettanto viva rimaneva nella sua esperienza di pittore la petite sensation ripresa da quel mondo francese meridionale che, a cavallo tra la Provenza, il Delfinato, la Savoia e les  Alpilles, gli aveva segnato l’anima. E Cézanne entrava per antonomasia a far parte di questo olimpo, anche se il suo nome (allora ben poco conosciuto, se non per i tempestosi rapporti con Zola) evocava quasi una blasfemia, certo per quel fare pittorico tanto volutamente scorretto, più teso ad una costruzione mentale di solidi geometrici che non ad una rappresentazione corretta di piani, di forme e di spazi.
Lorenzo Peretti Junior sapeva e tendeva ad ampliare, quasi a dismisura, il suo sapere. I viaggi, nel corso della sua vita informata ad una schiva aristocraticità, gli acquisti di materiale librario e gli studi improntati non soltanto ad ambiti di ricerca artistici, ma filosofici e addirittura psicoanalitici, avrebbero fatto del pittore Peretti un vero conoscitore d’arte, un addetto ai lavori di grande sensibilità, uno sperimentatore cosciente in piena adesione con le istanze novecentesche del mondo artistico, quando non proprio, come voleva il Cavalli, un vero critico d’arte.


In Francia


Nell’anno 1892, con la morte di Carlo Giuseppe Cavalli e le tristi vicende della successione alla cattedra di Pittura, Disegno e Ornato della Scuola di Belle Arti Rossetti Valentini, si determinò per la piccola Accademia montana una scelta di ristagno e di conseguente inesorabile decadenza, ma fu ancora una volta occasione importante per coloro che ne erano stati gli allievi migliori; occasione di allargare gli orizzonti, di uscire dalla valle che ne aveva cullato le speranze, in questo caso senza lo sprone di Enrico Cavalli, abbandonato al suo destino da detrattori insensibili e, purtroppo, ignari d’ogni novità artistica rilevante.
Per Lorenzo Peretti Junior si apriva la prospettiva culturale francese; meglio ancora, la Francia stessa, da vivere in compagnia del suo maestro Cavalli e dell’amico Carlo Fornara.

Il viaggio con destinazione la Provenza, Lione e Parigi, compiuto nel corso del 1893, costituì finalmente un banco di prova e un’occasione irripetibile. Un esito certo e datato (1892) della perizia tecnica del ventunenne Lorenzo Peretti Junior si riscontra in Natura morta con frutta e due bicchieri (olio su cartone, cm 46 x 39). L’opera è certamente un punto d’arrivo: la lezione del padre Bernardino, valente pittore di nature morte, è sconvolta dalla scelta modernissima della disposizione dei piani; al lusso sfarzoso dei drappeggi e delle cromie paterne si oppone una semplicità scabra, di gusto quasi metafisico, in cui gli oggetti sono colti nella loro essenza semantica, senza sottintesi, in una sorta di percezione assoluta. Quanto alla tecnica, il Cavalli sembra aver fatto breccia: il colore è steso in striature larghe, dense, generose. Quel gusto per il tonalismo che il maestro aveva rivelato agli allievi migliori si riaffaccia con moderazione, smorzato nella consuetudine della raschiatura, compiuta con un coccio di bottiglia aguzzo per scalfire, erodere la pasta cromatica quasi completamente asciutta. Ne consegue una pellicola pittorica tormentata, segnata, graffiata; quasi una ghiaiosa spiaggia di sassi appuntiti. Lo sfondo alto lascia trasparire una preparazione raggiunta con ampie spatolate di materia cromatica, lasciate asciugare e ricoperte con appoggi leggeri, determinati, sempre a spatola, per creare nuances e segni dal ductus veloce, corrente come un vento che sfiora e passa imperterrito. A sette anni dalla morte di Adolphe Monticelli, si ridefinivano quegli itinerari dello spirito che avevano determinato la potente maturità artistica di Enrico Cavalli. La Provenza con gli eredi della scuola marsigliese e il mondo ancora completamente inesplorato di Puvis de Chavannes, presente nello scalone del Musée des Beaux Arts di Marsiglia, come a Lione. Ziem e Vernay, Carrand e Seignemartin. Ravier e i contatti italiani con Fontanesi, tramite stilistico della Scuola di Rivara; alcune riflessioni su Charles Daubigny e sulla tarda cultura di ambito barbizonnier, con Constant Troyon, si potevano effettuare soltanto frequentando le collezioni pubbliche di pittura, costituite come raccolte civiche della città di Marsiglia o del Musée Granet di Aix-en-Provence.
Inoltre Lione, presso il cui Musée Cavalli e Fornara si esercitano nel comporre due d’après: il primo riprendendo la Danae (olio su tela, cm 24 x 18,5) di Domenico Tintoretto (Enrico Cavalli credeva si trattasse ovviamente di un dipinto di Jacopo Robusti), il secondo soffermandosi su una ritrattazione da Tintoretto con le Nozze mistiche di Santa Caterina (olio su tela cm 61 x 39). Non mancavano inoltre possibilità di confronto decisamente stimolanti sia con Delacroix, sia con il ruysdaeliano François Michel, o ancora con gli ambiti di pensiero solo apparentemente più antichi: Géricault e lo stile modernissimo dei suoi alienati.
Infine Parigi. I fermenti della capitale francese avevano già ampiamente segnato il declino dell’impressionismo, che lasciava il posto a sempre nuove formule posteriori: il puntinismo, le ricerche di Gauguin, una maggiore valutazione analitica e scientifica della luce anche da parte degli impressionisti storici come Claude Monet e Auguste Renoir. I fatti di Toulouse-Lautrec e di Van Gogh, con le novità stilistiche e tecniche conseguenti; il prosciugarsi della forma nelle espressioni di Puvis che avrebbero suggerito la monodimensionalità a Matisse; la discussione sui pittori di Pont-Aven, cui si sarebbero rifatti sia Fornara con La sorella Marietta davanti alla Chiesa del Lazzaretto a Prestinone (1894), Paesaggio con padre e sorella (1894), Le lavandaie (1898), che Ciolina (in Francia solo più tardi, ma certamente informato anche attraverso i confronti dialettici con i colleghi) con L’ombrellino rosso (1895); l’affermarsi sempre più chiaramente di soluzioni alla giapponese, molto vicine alla tecnica Ukiyo-e (ribaltamento dei dati prospettici, appiattimento ad una dimensione dello spazio), temprate da un simbolismo di maniera o di genio.
A Parigi il Peretti, instancabile talento critico, visitatore interessato di mostre e cacciatore sagace di novità, poteva cogliere completamente il sapore moderno e rivoluzionario del puntinismo o della tecnica a piccole tacche di Seurat, di Signac, che, del tutto autonomamente, sembravano aver ripreso in modi nuovi le intuizioni espresse nel tocco da Monticelli e da François Miel, definite anche nella tacca più larga e corposa dallo stesso Cézanne (almeno fino agli anni novanta) e nella scabrosità quasi gessosa dell’appoggio di Puvis; esperienze che conforterebbero l’ipotesi (su cui dovremo inevitabilmente tornare) di una genesi autoctona del divisionismo in Valle Vigezzo.
Parigi, dunque, come ultima frontiera del sapere, come luogo privilegiato dell’affermarsi e del diffondersi del pensiero d’avanguardia. E soprattutto l’occasione irripetibile di confrontarsi con il Maestro Cavalli e con il giudizio dell’amico Carlo Fornara, di fronte alle opere dell’avvenire e alle tecniche maggiormente discusse e scandalose.

Un nuovo viaggio francese, nel corso dell’anno 1894, ci porta a ridosso dell’epoca delle grandi decisioni: Mattino d’ottobre di Carlo Fornara data 1893, mentre Prestinone d’autunno, opera fontanesiana di Lorenzo Peretti, deve essere datata proprio al 1894. Sembra che nell’ossequio a Fontanesi e ad Auguste Ravier i due amici facessero a gara in una sorta di superamento dei limiti imposti dai maestri di antica tradizione romantica e constaboliana (va quindi sottolineata l’importanza del soggiorno lionese e la revisione stilistica nel solco del dirompente linguaggio gestuale e segnico degli ambiti di Morestel e di Crémieu).
Una seconda e determinante tappa verso l’evoluzione di un linguaggio proprio degli allievi di Enrico Cavalli e di tutta la cultura pittorica vigezzina è segnato ancora una volta da un’opera di Carlo Fornara. Si tratta di En plein air che data 1897. Ma prima di quest’opera, per molti versi fondamentale nel percorso di affrancamento alla modernità di tutta una fenomenologia artistica che aveva le basi nell’ultimo e straordinario sconvolgimento stilistico proposto da Delacroix, va sottolineato parallelamente il percorso evolutivo di Giovanni Battista Ciolina, che sembra riflettere ancora, in pieno contrappunto con Peretti Junior, il mondo poetico quando non proprio l’ultimo grido dell’insegnamento più intimo e sincero del Cavalli.
Ciolina, la cui opera deve essere analizzata in un capitolo particolare, va citato nel divenire della ricerca del Peretti, perché molto probabilmente ne influenzò lo stile e fu influenzato dall’emergente talento di Toceno.
Effetto di luce nel bosco, quadro realizzato da Giovanni Battista Ciolina nel 1894, segna in modo inequivocabile il percorso che sicuramente anche il Peretti aveva intrapreso con il Ritratto del padre Bernardino, splendido risultato di una esecuzione a tacche corpose che forniscono un pulsare pieno di luce e di cromia, ma anche con opere come Sottobosco, dalle partizioni cromatiche e spaziali di evidenza segantiniana (e di cultura immediatamente predivisionista) o con Ultima neve (un gioiello realizzato ad olio su tavola di 21 x 16,5 centimetri), in cui la lezione insita nell’opera Villette di Enrico Cavalli è ormai completamente assorbita e rielaborata. Anche il primo Ritratto della sorella (non ancora realizzato con formule divisioniste) e l’Autoritratto giovanile vanno assegnati agli anni determinanti per il formarsi di una piena e autonoma coscienza dell’artista e cioè al triennio 1894 – 1897. Sempre, in queste opere, la partizione dello spazio, dominata da un solo piano e da una sorta di bidimensionalità ariosa e vibrante (significata da tocchi minuti o da ampie tacche spatolari), prende il posto dell’elaborazione che si determinava ancora seguendo fontanesianamente (si tratta com’è ovvio non dell’estremo Fontanesi) il susseguirsi delle quinte arboree o gli impianti d’intuizione spazio-cromia.
La luce non è più costruita alla fiamminga, come nella Bottega del calderaio che Fornara, in un impeto di orgoglio e seguendo le orme del maestro Cavalli dell’opera La lettura, già intessuta della lezione del Fromentin, aveva fatto approdare con successo alla prima Triennale di Brera. Tutte le riflessioni milanesi di Gian Maria Rastellini (che non fece mai parte integrante del terzetto dei veri innovatori: Fornara, Peretti stesso e Ciolina) sembrano secondarie per il pittore di Toceno, ormai unico ad essere sempre estremamente ligio, fino alle conseguenze più imprevedibili, ai modi e all’insegnamento di Enrico Cavalli.
Rastellini, allievo di talento, aveva ormai pressoché abbandonato il solco del Cavalli, che pure gli restava amico assai caro. Il suo era stato una sorta di intelligente raccordo tra una lezione francese e monticelliana e le novità tutte italiane dell’ambiente lombardo. Non un tradimento delle sue origini, questo mai, ma forse proprio ciò che Cavalli, se non fosse stato allontanato dalla sua Scuola, avrebbe messo in pratica. Negli anni migliori, tra il 1885 e il 1891, il maestro di Santa Maria pensava proprio ad un finale di partita ben chiaro: coniugare le esperienze francesi con la pittura italiana. Moltissimi sono gli artisti della penisola, non solo lombardi, quindi, tra cui spiccano i nomi di Raffaello Giolli, di Francesco Paolo Michetti, dell’emiliano Bruzzi, ma primo fra tutti il Morelli, che egli porta ad esempio ai suoi allievi, che egli riprende e fa riprendere in d’après scolastici, opere spesso anche di ottimo valore professionale.
Forse, il Peretti, di tutto questo progetto ambizioso e complesso dal punto di vista didattico, non si curava per nulla. La pittura dei Francesi gli faceva sentire le vibrazioni più potenti, lo prendeva completamente, con quella libertà che permetteva di mettere insieme i più raffinati studi scientifici sulla luce e sull’ottica con la piena, divina libertà del creare per mezzo di segni, di polisemie autografe, uniche e personalissime, non le creazioni a volte stucchevoli degli Italiani: lo chiamassero pure allievo degli allievi di Monticelli, o divisionista in pectore, poco interessava!
E al divisionismo Peretti sarebbe arrivato da solo, senza passare attraverso l’ossequio riverente per i tanti epigoni di Segantini, perché la pittura della pura luce l’aveva assimilata a Parigi negli anni 1893-1894 da Seurat, dal primo Signac, non dai Nomellini o dai Morbelli, pur bravi e valenti, ma per il Peretti lontani, lontanissimi da una libertà intellettuale che quasi ne modellava la libertà creativa.


Il divisionismo: storia di un rifiuto

Gabbie tecniche e schematismi di pensiero


Che Lorenzo Peretti fosse un pittore divisionista o, comunque, ben integrato in quella sorta di gruppo dapprima spontaneo, poi sempre più confessionale cui appartenevano Morbelli, Nomellini e, quale grande ispiratore, anche Gaetano Previati, solo dopo aver preso il posto dello sfortunato Pelizza da Volpedo, non è ormai più un segreto.
Ma forse era proprio la disciplina di gruppo a non soddisfarlo: quel sentirsi obbligato ad una tecnica, vincolato ad un pensiero comune, ad un credo politico se non sociale altrettanto comune, irreggimentato. Il Divisionismo era figlio della scienza, ma non di una gaia scienza; derivava infatti dal radicalismo positivista e dalla fede nelle umane sorti, che potevano irrimediabilmente imprigionare l’arte. La pittura soprattutto, di tutte le arti la meno scientifica.
E, se anche uno spirito libero e straordinario come Segantini aveva dettato la più alta interpretazione del messaggio artistico-scientifico divisionista in Italia e in Europa, ispirato e non mai indebolito dal suo credo, il pittore di Arco rimaneva un caso assoluto, isolato. Inutile era l’essere epigoni di un evento irripetibile; inutile era confrontarsi con i prodotti di quell’evento.
Tali, se non proprio eguali si debbono credere le riflessioni di Lorenzo Peretti a proposito di uno dei nodi cruciali della sua vita, dello sviluppo stesso della sua arte. Indizio rilevante di questo passaggio complesso, epocale, nella sperimentazione del Peretti, sempre in rapporto se non diretto, quasi spirituale con il suo maestro Enrico Cavalli, è il secondo Ritratto della sorella, che possiamo attestare all’anno 1898.
In quest’opera si differenziano con evidenza i due moduli risolutivi che sono alla base dell’elaborato: la tecnica a piccoli grumi di materia agglutinata e opacizzata per la risoluzione del volto, in cui la luce si sfaccetta poliedricamente secondo una valutazione cromatica da imputare soltanto alle valenze endogene del dato materico, messa in contrappunto con una tecnica simile, eppur non eguale, definita nell’uso del carboncino finemente tritato e commisto alla grafite, sospeso in impurità non saturate, per la realizzazione della massa dei capelli, su di un fondo biancastro e gessoso, mosso da improvvise scalfitture ottenute per tagli di spatola o per segni di punta o, ancora, come righe prodotte da un coccio di vetro, che muove la cromia asportando o lasciando, tormentando e variando all’infinito il dato luminoso, modulato per segni nervosi e campiture ampie nella parte della veste, appena segnata in geometrie chiuse e severe che molto spazio lasciano al supporto di cartone brunito, posto volontariamente in piena vista. Una tecnica divisionista messa in relazione con un’altra tecnica, più tradizionale, più legata al segno, al gesto incontrollato. È quanto accade in un’opera determinante, ancora una volta per la lettura sinottica delle sperimentazioni degli allievi della Rossetti Valentini sotto la guida di Enrico Cavalli, a firma Giovanni Battista Ciolina: si tratta del Filo spezzato (olio su tela, cm 230 x 170), che data 1897. La genesi di quest’opera fu complessa e non soltanto per la simbologia iconografico-letteraria che l’artista vi volle elaborare. Si trattava di portare a conciliazione formale due anime, due modi di sentire la pittura apparentemente inconciliabili: la tecnica divisa e il gesto libero della pittura tradizionale, anche espressione di un antico modo di fare realistico. Ciolina vi riuscì, seppure a prezzo di un profondo e lacerante travaglio interiore; doveva restare memorabile quell’onda cromatica, trattata per toni divisi, che ingloba la quarta figura del gruppo, la vecchia donna, terza età della vita, addormentata in un sonno di morte. La sua sperimentazione ebbe eco in un’opera di Enrico Cavalli datata 1898. Quanto fosse urgente e complesso il desiderio di percorrere strade nuove, sperimentazioni che non si fermassero agli ordini di una scuderia, lo mostra proprio il Nudo a mezzo busto (olio su tela, cm 45 x 52) che, al di là di essere un d’après iconografico (la fonte è Sognando di Charles Chaplin, pittore di Andelys di vent’anni più vecchio di Cavalli), segnala una impostante, anche se transitoria, presa di posizione da parte del Cavalli.
L’artista sembra voler ancora una volta sconfessare le rigidità degli assiomi e delle regole scientifiche per imbarcarsi in una giustapposizione segmentata di valori timbrici e tonali puri; una forma del tutto nuova a striature raggiate materiche, sintesi certamente chiara di stilemi divisionisti, in cui il dato principale, la luce, poteva evincersi e autogenerarsi attraverso un ritmo pausato dai segni e dalla profondità della loro incisione, giocata tra la superficie densa di una spessa pasta cromatica, i gesti ampi della spatola e il supporto.
Dunque, tra il 1897 e il 1898 si decidevano alcuni degli scenari immediati che la pittura vigezzina avrebbe determinato in Italia. Lorenzo Peretti era al centro di quelle speculazioni di pensiero; ne era certamente una voce importante. Tuttavia viene fatto di chiederci quali posizioni rivestisse nel dibattito Carlo Fornara. Ebbene, Fornara?
Lo scandalo suscitato dall’opera En plein air (olio su tela, cm 145 x 190) nell’anno 1897 e l’interesse, che pareggiava l’amarezza per critiche davvero ingiuste, dimostrato dal plotone divisionista, avevano posto Carlo Fornara su una sorta di piedistallo; artista maledetto e controcorrente da una parte, pittore dell’avvenire e coraggioso precursore dall’altra. Il giorno dell’affermazione, l’ora dello scandalo foriero di quel riscatto ideale vagheggiato fin dagli anni della scuola erano giunti davvero; si trattava di essere capaci di sfruttare l’occasione o, in caso contrario, non l’Italia e l’Europa avrebbero dimostrato il loro plauso, ma una morte lenta e l’oblio avrebbero determinato un declino senza ritorno. La figura di Enrico Cavalli e le sue sventure stavano come il fantasma di Banquo dinanzi agli occhi del Fornara. E Fornara fece la sua scelta; giusta, se in questi anni giungono anche gli elogi di Umberto Boccioni, forse più forti dell’ammirazione pudica di Pelizza.
In quelle “audacie di rapporti cromatici, bollate di barbariche stonature”, come ebbero a scrivere i giurati della Terza Triennale di Brera, c’era tutta la lezione francese, ma anche e soprattutto quella solidità costruttiva che sapeva di Monticelli e della sua tecnica atta a costruire la figura con e per il colore. L’unico piano nasce per ribaltamento dell’immagine e dei volumi; i pesi sono armonizzati in un equilibrio di luminescenze e d’ombre.
Ovviamente, Lorenzo Peretti prese atto, possiamo credere con piena soddisfazione, del successo che proiettava l’amico Fornara nel centro delle polemiche e nel cuore della poetica d’avanguardia. Ma il suo mondo spirituale, la sua personale ricerca artistica, i suoi interessi poliedrici e di parossistica raffinatezza, lo portavano altrove: egli non poteva fermarsi alle regole, seppure auree, del Divisionismo.
La pittura non poteva e non doveva farsi scientifica. Era necessario che prevalesse, nell’opera pittorica, quello slancio di vita che, quasi sostrato coscienziale, determinasse il divenire del sentimento in forma, sostanza e segno. E poi, per dire davvero tutto, con quel suo carattere caustico, ribelle, irriverente come può e sa essere irriverente chi è dotato di un’intelligenza superiore, non ci poteva essere con Vittore Grubicy o con nessun altro gallerista nemmeno il barlume di un’intesa. Peretti non poteva rinunziare a quel suo tratto nobile di libertà anarchica, veramente übermensch: cioè l’essenza della sua ispirazione.
L’opera Bosco dei druidi (1898 ca.) e, ancora, Conversazione campestre dovevano essere la risposta alle profferte dei divisionisti, cui il Peretti non rispondeva.
Nel silenzio del suo studio, forse affaticato dal serrato dibattito che sicuramente si svolse dopo il successo-scandalo di Fornara, il pittore di Buttogno elaborava una dirittura stilistica dalle architetture sofisticate, dai rimandi speculari, dalle innovazioni sempre più ardite. Nella prima opera che abbiamo citato, sono già presenti tutte quelle anticipazioni che, in corrispondenza anche con l’espressionismo fornariano predivisionista, avrebbero determinato l’operare del Tosi alcolico, il più debole stile di Vittorio Castagneto e, nelle anticipazioni dell’espressionismo astratto, avrebbero dato il via, per altre strade e attraverso altre ricerche (l’espressionismo del Blaue Reiter) di egual principio tuttavia, alla poesia pura dell’opera di De Staël.
Lorenzo Peretti sapeva di essere una sorta di alchimista in bilico sul precipizio del nulla o dell’ovvietà, ma pur sempre capace di lanciarsi, attraverso la sperimentazione, verso lidi inesplorati che dovevano soddisfare completamente il suo spirito indomito.
In Conversazione campestre (olio su tela, cm 55 x 45), l’antico rimando iconografico della Sacra conversazione si coniuga con gli asciutti e grafici esiti quasi incisori della lezione simbolista di Puvis de Chavannes. Ma c’è in quest’opera anche quel sapore di figura unidimensionale, di segno trattenuto attraverso la disciplina del tratteggio corto, segmentato e apparentemente impuntito e diviso, che avrebbe avuto grande fortuna nell’evolversi della pittura dei postpuntinisti nella Francia di Matisse.
Questa era la risposta solitaria e coraggiosa che Lorenzo Peretti Junior dava all’ormai compatto pensiero divisionista. La morte di Segantini, alla fine del secolo, avrebbe determinato il resto.




Il non finito e le radici di un espressionismo al limite del non formale
Quanto accadde dopo il 1899 e quanto si determinò in fortune e sfortune personali, anche tra gli amici d’un tempo, sembrava lasciare indifferente il Peretti. Non certo o soltanto per freddezza di carattere ma, molto più probabilmente, per la ferma intenzione di non lasciarsi coinvolgere all’eccesso in vicende che lo avrebbero deconcentrato, svuotato e avvilito. Vicende esaltanti, se non addirittura colme di trionfi per Carlo Fornara, avviatosi ad essere considerato (forse riduttivamente) epigono dell’inimitabile creatore epico Segantini. Vicende meno ricche di soddisfazioni artistiche per Giovanni Battista Ciolina, che si disponeva ad una revisione dei suoi progetti milanesi (anche se tenne aperto il suo atelier, nella città lombarda, fino all’anno 1914); poeta sensibile, colorista raffinato ma, specialmente in questa fase, non sempre deciso in modo perentorio sulla linea da tenere, sullo spirito di combattente di cui si sarebbe dovuto munire. Ed era pur vero che sempre in quell’anno funesto, ma anche esaltante, il Ciolina aveva espresso uno dei sublimi capolavori del divisionismo con Donna che guarda alla finestra (olio su tela, cm 98 x 64), forse l’opera più perfetta, per equilibrio d’ispirazione e di resa iconografica, di tutta la produzione tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX. Tuttavia, non potendo contare sull’appoggio della Galleria Grubicy, già promotrice di Segantini ed ora in relazione diretta con Fornara, e dovendosi poi affidare ad una clientela non pilotata e quindi occasionale, anche se di grande gusto, egli vacillava.
In ultima analisi, Enrico Cavalli.
La sua stella, così fulgida solo dieci anni prima, sembrava al tramonto all’alba della Terza Biennale di Venezia. Ingiustamente la sua pittura veniva giudicata troppo moderna dagli sciocchi detrattori della Valle Vigezzo, chiusa e ancor schiava di un pensiero ottocentesco, così come in tutto il novarese; sorpassata dai tempi e dalle mode, nel giudizio più dinamico degli intenditori e dei collezionisti sia in Italia settentrionale che nell’amata Francia meridionale.
E Cavalli aveva seri problemi economici, quindi si doveva rassegnare ad un esercizio della pittura che privilegiasse il mestiere, a scapito della ricerca: questo il suo non nuovo, ma terribile dramma personale.
Se un artista può operare per sé, quasi sfidando i limiti del proprio sapere o gli steccati apposti dalla critica e dagli inevitabili giudizi a tratti severi, a tratti corrivi di un pubblico in molti casi privo di formazione e d’informazione; se un artista si contenta di scoprire e, non avendo bisogno di vendere, non mostra e non fa vedere; se un artista è talmente colto da aver scoperto l’essenza stessa della sua volontà creativa in potenza e di volerla poi tradurre in atto nella piena libertà da vincoli di poetica comune o di interventi in collettive, quell’artista, a costo di essere definito misantropo, ha forse scoperto il principio del suo equilibrio.
Abbandonato definitivamente il percorso divisionista, Peretti si era fermato a pensare. Forse, in questa fase, la riflessione sul non finito giunge ad assumere un connotato quasi teoretico. Sempre, nelle opere del Peretti si incontra un modo di dipingere che ha ragion d’essere soprattutto nei bozzetti. Parti tralasciate o non finite; interventi di mascheramento o di appiattimento del colore; segni sovrapposti; tecniche affatto differenti fatte coesistere in un’unica opera. E sempre si trattava di una scelta conscia, determinata da una volontà precisa di coinvolgere il fruitore (in realtà inesistente, perché impersonato dallo stesso artista agente), di provocarlo, di metterlo in imbarazzo. Se, a volte, le scale cromatiche rasentavano l’aristocraticità di una percezione affatto semplice, in ogni caso l’invenzione iconografica e gestuale soggiaceva ad un calcolo ben articolato di sfruttamento, anche funzionale, dell’incompiuto.
Il tralasciare, il non portare a termine, avevano inoltre un significato spirituale e una dimensione filosofica da fare risalire addirittura alla speculazione platonica, rivista attraverso il pensiero di Plotino e determinatasi in epoca rinascimentale con Michelangelo o, per il colto Peretti, anche con le tecniche di El Greco, Velázquez e Goya, senza dimenticare Constable.
Il pensiero e la speculazione filosofica erano ormai le guide più importanti nell’agire artistico di questo isolato genio, dal palato finissimo.
La pittura non è che l’ultimo atto di una sorta di decantazione mentale, di un distillarsi di sensazioni e di percezioni che hanno sì a che fare con l’estetica, intesa nell’accezione di ricerca del bello, ma anche con le facoltà di giudizio che si elaborano nella coscienza.
Che il Peretti non facesse vedere le sue opere, come ebbe occasione di lamentare il suo maestro Cavalli, pare del tutto logico ora, alla luce di una scelta elitaria rigorosissima che egli volle compiere in piena autonomia e libertà.
In quest’ottica ci è dato capire l’essenza di alcune nature morte di impressionante forza evocativa, quasi di morandiana essenzialità. A tratti metafisico, con latenti tensioni che sembrano segnare percorsi destinati ad essere risolti più tardi da Carlo Carrà e dal novecentismo dei Sei di Torino con il viatico di Casorati, il Peretti anticipa, con intuizioni lampeggianti, come nello splendido Frazione alpestre (olio su tavola, cm 11 x 17, 1920 ca.), la pittura di forma risolta in frammenti essenziali di linguaggio, in tasselli di colore, in placche geometriche, aride, materiche (dopo esperienze astratte e informali) di un genio degli anni Cinquanta del Novecento che risponde al nome di Nicolas de Staël e, in Italia, il fare di un continuatore lombardo del lombardo-vigezzino Arturo Tosi: Morlotti.
Indubitabile, in questa ricerca personalissima e ormai lontana dalla lezione vigezzina, anche se non mai sradicata dall’insegnamento di Enrico Cavalli, il valore dei viaggi compiuti con puntuale frequenza in Francia e Germania per tutto il corso degli anni Venti e Trenta. Peretti era uno spirito vigile, attentissimo, concentrato nella ricerca; un vero temperamento critico per cui l’arte, la propria e quella degli altri, andava vissuta come una sorta di sacerdozio dell’assoluto.
L’incontro con il pensiero dello Steiner e con Kardec, la lettura di Eliphas Levi e dei testi buddisti e yoga, il percorso delle filosofie occidentali non sistematiche, portarono l’artista ad una libertà interiore ormai priva di vincoli razionalistici, ma espressa in pure intuizioni, che in Valle Vigezzo avrebbe avuto quale epigono, espressionista sui generis, il problematico Giuseppe Magistris (1911-1967)1; quella libertà cui Lorenzo Peretti Junior tendeva fin dalla realizzazione di uno splendido non finito dal titolo Lavandaie alla lanca di Toceno (olio su cartone, cm 41,5 x 53,5), dalla poesia stemperata in tocchi essenziali, in slavature semeghiniane, anticipazione illustre della straordinaria poetica di De Pisis, eppure opera realizzata ancora nei primi anni del Novecento (la datazione, per caratteristiche d’impianto e per concomitanze stilistiche, non può andare oltre il 1902).
Soltanto la ricostituzione della biblioteca Papetti, purtroppo andata perduta per smembramento, fondo cartaceo tra i più interessanti di tutta la Valle Vigezzo, raccolto e ordinato, dopo la morte del Peretti, da colui che era rimasto forse il suo più fedele amico, potrebbe informarci intorno all’attività di critico esercitata dal pittore, ma ancor più potrebbe fornirci una spiegazione ben ampia del suo fare artistico e di tutte le sue scelte complesse e, in qualche caso, alla luce di giudizi superficiali, totalmente sconcertanti.
Dobbiamo ammetterlo. Lorenzo Peretti Junior ebbe la sola fortuna che un artista può augurarsi: non venne mai a patti con il pubblico e, meno ancora, con la critica. Un pittore che non espone e non fa vedere per scelta deliberata, specialmente se ha avuto maestri del valore di Enrico Cavalli, non può che raggiungere i massimi livelli della libera e pura ispirazione, senza perdite di tempo, senza deviazioni da una linea precostituita per compiacere la committenza o per necessità di guadagno. In Peretti si sintetizzano, in una sorta di incontaminata purezza, i risultati e le illusioni della scuola di Enrico Cavalli; ciò che è stato, con un regesto storico preciso, ma anche tutto ciò che avrebbe potuto essere e non fu mai.

Testo di Dario Gnemmi
Tratto da Vigezzini di Francia. Pittura d'Alpe e d'Oltralpe tra Otto e Novecento in valle Vigezzo.
Skira Editore, Milano 2007.

Commenti