In suprema identità (Davide Brullo)

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L’ultimo uomo sulla terra: cosa farà? Che testimonianza offrirà del percorso sofferto dall’uomo? A chi cederà il testimone? L’ultimo uomo sulla terra: attraverso i suoi occhi sgorga – e trova liberazione – l’intero corso dell’umanità. Con Lorenzo Peretti Junior (1871-1953) «si conclude la parabola di quattro generazioni dei Peretti dedite all’arte» (Davide Ramoni): all’apparenza (coltivando l’illusione di osservare Lorenzo dobbiamo continuamente guardarci dai trabocchetti dell’apparenza, la sua vita è puntellata da specchi e controspecchi, evoluti prestigi, fili trasparenti agganciati all’astrazione, rischiamo di crederci l’oggetto ambiguo di un suo rarefatto ritratto) in modo drastico, pittoricamente dimesso. Dopo tutto, Lorenzo «non fece mai professionalmente il pittore; ci si dedicava per ricerche critiche ed estetiche» (ancora Ramoni), allevato da un padre, Bernardino, che lo voleva impiegato in attività meno vaghe e più redditizie. Fortunatamente, Bernardino morì quando Lorenzo aveva 18 anni: il ragazzo scansò il lavoro e fece il suo ingresso alla Scuola Rossetti Valentini, allora dominio di Enrico Cavalli. Iniziò l’avventura più grande: avidi pittori erano sedotti dalle trasgressioni francesi di Cavalli: Gian Maria Rastellini, Giovanni Battista Ciolina, soprattutto Carlo Fornara.

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L’ultimo dei Peretti. Che grandiosa vertigine doveva ghermire Lorenzo detto “Junior” per distinguerlo dal nonno, “il Raffaello dell’Ossola”: «con lui la Valle Vigezzo perdeva il suo più grande affreschista: aveva portato tale arte all’apogeo; nessun altro dopo di lui riuscirà a fare di più e di meglio» (ancora Ramoni, un pioniere nel campo dell’esplorazione nell’arte vigezzina, le cui analisi, oltreché tecniche, sono spesso soavemente “sentimentali”). La parabola è al tramonto: il padre di Lorenzo è un onesto, devoto, capace custode del talento di Lorenzo “Senior”. Il genio di famiglia, apparentemente, andava a estinguersi. Lorenzo “Junior”, tra l’altro, sembrava sfottere la schiera dei santi di famiglia: usava il metodo pittorico per i propri trucchi alchemici, nella valle aveva fama di “matto” e di perdigiorno (o di demonico seduttore di svagate campagnole). L’uomo che ha il destino di terminare la storia pittorica dei Peretti, se ne frega della pittura, non si fregia del vanto estetico.

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L’ultimo dei Peretti, il primo artista del mondo nuovo. Lorenzo “Junior” è uomo da pensieri enormi e insondabili. Ritenendo l’arte moderna un sotterfugio di Satana per traviare la mente dell’uomo “progressista” e razionale (pensiero condiviso con l’amico fraterno Fornara), Lorenzo pensava che l’arte, per risorgere, dovesse toccare il fondo. Esprimere e sperimentare il nulla come preludio alla resurrezione. Uomo cosmico, Lorenzo aveva un piede nel fango di questa terra marcescente e l’altro nella Sion celeste, cinta di mura d’avorio. Un piede nell’aldiqua e l’altro nel mondo che dovrà sorgere – e di cui lui è il solo profeta. L’artista è l’essere che riesce a sintetizzare il genio di tre millenni di pittura occidentale, trovando un segno nuovo. Non è forse vero che alcuni disegni di Lorenzo appaiono come petroglifi, graffi su pietra, salvifici scavi? Ma il disordine dei primordi è coniugato alla sapienza medioevale, la mano rinascimentale mescolata alla mente espressionista, mistica, novecentesca. Resta da capire se a Lorenzo “Junior” piacesse interpretare il ruolo del fabbro che inchioda alla croce l’arte occidentale, o quello del Risorto dalle cui stimmate stilla il mondo nuovo (fiumi di latte e miele e fragorose visioni estetiche). Insomma: Lorenzo ha voluto dipingere l’ultimo quadro del vecchio mondo (con violenza e compassione) o il primo del mondo che verrà (con speranzoso spirito che sfonda nell’ignoto)?

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Il Ritratto della sorella, ad esempio. La concezione del dipinto, senza data e senza tempo, ha la nuda semplicità del futuro. La donna, pudica, ha il dono e il destino di una sopravvissuta. Guarda con compassione alla millenaria vicenda umana, con rispetto: inaugura, con gioia, una nuova, nuda umanità. Ecco il viso del primo uomo dopo la fine dell’uomo. Nei disegni, invece, dalla Donna con la gerla e il Carrettiere fino alle ipotetiche Figure nel bosco, sempre più spogli e rarefatti, si assiste a qualcosa di finale, di davvero ultimo e definitivo. I tratti della matita sembrano respiri: oltre essi è la landa del nulla. Si esprime il silenzio, la certezza della fine – e dunque, di una imperiale salvezza.

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In una visione dell’arte come privilegiato strumento di conoscenza – mezzo di realizzazione, estetica come adempimento di sapienza – cosa incontra Lorenzo? Nel 1897 l’amico Fornara, con l’epocale quadro En plein air, ottiene un precoce, luminoso successo: diventa, facendo i debiti conti, alfiere del “divisionismo” (ennesima nuova Scienza&Religione dell’arte). Lorenzo fugge le etichette, di ogni stampo, non ammette l’intromissione del razionalismo nell’arte, è pittore di violente, disarmoniche ispirazioni. Guarda a Oriente, con decisione. La Francia è la privilegiata terra delle “giapponeserie” (japonaiserie) e dei rintocchi artistici cinesi. Le stampe di Hokusai, Hiroshige e Utamaro inondano la fantasia di Van Gogh, Manet, Klimt; irrorano i fasti dell’Art Nouveau. Dopo le estemporanee intuizioni di Goethe e Schopenhauer, il legame dei poeti con l’Oriente si consolida con le opere di Victor Segalen e di Hermann Hesse, di Thomas S. Eliot e di Saint-John Perse. Si diffondono gli studi di Richard Wilhelm, che nel 1924 rende pubblico il decisivo lavoro (decennale) di traduzione dell’I-Ching, l’ancestrale testo che fonda il pensiero religioso (e politico) cinese. L’Est è luogo di fuga e di ambigui incontri estetici per gli occidentali che hanno perso la propria identità. Al posto del Crocefisso, subentra il sordo rintocco di una campana tibetana. Tuttavia, a Lorenzo “Junior” importa poco della dialettica estetica, alquanto superficiale, dei vari, vaghi imitatori di chincaglierie orientali. Piuttosto che al risultato, al manufatto, egli mira al gesto.

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«Nei tempi antichi non vi erano le regole, e l’estrema naturalezza non si era ancora infranta. Quando la naturalezza si infrange, appaiono le regole: queste si basano sull’unico tratto di pennello. L’unico tratto è origine di ogni cosa, è radice di tutti i fenomeni». I concetti estetici redatti dal pittore e teorico cinese Shitao (1642-1707), ovvero “Onda di pietra”, noto anche come Gugua (“Zucca amara”) e Dadizi (“Discepolo della Grande Purezza”), sono lo strumento per leggere l’opera di Lorenzo Peretti “Junior”. «L’unico tratto accoglie al suo interno la totalità degli esseri»; «Il paesaggio esprime la forma e le tensioni di tutto l’universo»; «Ogni cosa risiede nell’essere umano, attraverso il libero fluire di pennello e inchiostro». L’universale riversato nel particolare, la fusione degli opposti, la ricerca, tramite la pratica, dell’autenticità, della regola somma che «si basa sull’assenza di regola»: questa visione dell’arte, drastica e diametralmente opposta all’ornamento o alle raffinatezze dell’arte fine a se stessa, è di Lorenzo. L’arte è la via mistica. Ma guai a pensare di poter arrivare da qualche parte: il mistico attraversa l’arte per ritornare in sé, e dai ciechi, dagli ignoti è preso per idiota. Lorenzo retrodata la dinastia dei Peretti a una primigenia idiozia. Viene ritenuto dai compaesani matto e stregone: in verità è un Santo.

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Chiudere i conti con il mondo terreno. Nel 1894 Lorenzo “Junior” compie il Ritratto del padre Bernardino. Ha 23 anni, e fa pratica su una fotografia del padre. Il ritratto si rivela un omicidio. Lorenzo compie un lavoro magnifico, mobile e moderno: il padre sembra una statua, decrepita. Il crepitare delle masse evidenzia la vecchiaia, il decadimento, la mummificata tradizione, le morte. Così Lorenzo, con eccelso colpo d’artista, si libera dello spirito del padre, morto cinque anni prima (nel destino di “Junior” ci sono vasche, flotte di morti, di colpe incompiute, di affetti ancora da riscuotere, di frasi che attendono l’aggettivo che le giustifichi: Lorenzo è l’improvviso, improvvido artista che compie l’anello che lega i vivi ai morti, contrae il patto che ammette questo mondo in quello al di là). Poi, giudiziosamente, smette di datare i quadri. Come se tutto vibrasse in un terso “oltre il tempo”: e questo cos’è? Un dipinto barbaro, premedioevale, oppure un quadro che ancora deve nascere, posizionato in un futuro lontanissimo? Di Lorenzo non possediamo fotografie. Lo si scorge seminascosto, accovacciato, in una immagine che ferma il pittore fraterno Giovanni Battista Ciolina (in piedi, sguardo fiero e pollici nei taschini) con la moglie (in ginocchio, davanti al marito) e la figlia piccola (in braccio alla madre). Lorenzo sembra un intruso, un pezzo di cartone appiccicato alla cornucopia familiare, straniero. Il cappello gli fa ombra, il viso, si intuisce la corsara barba, è una macchia nera, irriconoscibile, come fosse celato da una benda. Il pudore dei Santi. La spudoratezza, l’incauto “dar mostra di sé” rammemora la nostra origine da schiavi, da corpi messi in vendita nel micidiale macello di carni. Il nobile si cela, non ha bisogno del palco; il Santo vive l’invisibile.

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Contemplare i paesaggi di Lorenzo. Gli squarci di bosco, l’ansioso chiarore della Val Vigezzo, i vicoli di Toceno, gli oratori che compaiono improvvisi, abbacinanti, divini. Sembra di costeggiare l’Himalaya, luoghi e chiarori in cui accadono illuminazioni quotidiane, si attendono. Il viso di un monaco matto tra i cespugli, a un condottiero di vacche accade di scoprire, all’improvviso, la norma che regola il mondo – accede ad altre vette, oltre a quelle che cingono il repertorio del suo destino. Le lavandaie sembrano oranti di fronte a un fonte battesimale, o allo squarcio in cui precipita la terra, l’uomo. I quadri di Lorenzo come un’area sacra, il quadrato quieto del chiostro, di spazi sterminati, di sterminata bellezza. La storia di Lorenzo “Junior” analoga a quella di Dino Campana, il poeta non-poeta, alieno ai gusti leziosi dei letterati, fuori moda, fuori serie, fuori di testa. Dino marcisce in manicomio (e produce da sé l’opera che cambia i canoni della poesia italica); Lorenzo è disintegrato dall’indifferenza. In una poesia dedicata a Mario Novaro e datata “Domodossola 1915”, Dino, per scaglie liriche e mitiche, ricrea la città estrema, avamposto, luogo di transito per trafficanti di sogni e banditi come lui («Come delle torri d’acciaio/ Nel cuore bruno della sera/ Il mio spirito ricrea/ Per un bacio taciturno»). Nella città notturna, che scaturisce tra monti a precipizio, immagino l’onirico incontro tra Dino e Lorenzo. Il poeta ha trent’anni, il pittore quarantaquattro. Silenziosamente ascoltiamo il loro dialogo, i travolgenti vuoti in cui si compie il rito mistico e modesto dell’arte.

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Perdigiorno e mago, demone sensuale e mistico: i paesani ritenevano che Lorenzo “Junior”, tipo poco affidabile, praticasse prestigi di ogni genere. Dicevano, sovrapponendo alchimia e perversione, che riuscisse a mutarsi in un agile gatto nero, avido d’infilarsi tra le sottane delle belle del paese. Insaziabile, inquieto Lorenzo. Che affida il suo sapere in un esoterico “testamento spirituale”, una irrevocabile preghiera. Come a dire: non sono altro che questa orazione, questo umile detergere parole sul volto insondabile di Dio. Alla luce di questo lascito, ogni opera artistica di Lorenzo va inserita in un netto tragitto spirituale. Ogni opera è esperienza, esperimento conoscitivo. Non soltanto quella più evidente (il Bosco dei druidi, ad esempio, che risale intorno al 1898, e sottolinea gli interessi “pagani”, gli intenti “celtici” di Lorenzo), ma soprattutto le opere più remote e di difficile lettura (i disegni turbati e cristallini, i paesaggi su cui plana un appagante senso mistico). Simili alla processione, alla scandita scalata verso i cieli di un monaco privo di ordine ed esiliato da ogni eresia. Solo.

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C’è poi la storia, misteriosa quanto l’identità di chi la ha creata, della biblioteca privata di Lorenzo “Junior”. Lorenzo è un uomo spirituale, “pneumatico”, che esercita la propria spiritualità – e la sua personale “via” infernale e paradisiaca – nell’arte. L’atto istintivo, originario dell’arte, però, è il risultato di uno studio indefesso, brusco, caotico. Certamente Lorenzo possedeva una biblioteca “esoterica”, unica e bizzarra nell’antro azzurro e appagante della Val Vigezzo (fatta di luoghi, se si crede alle apparenze, in cui ogni ricerca spirituale è vano gorgheggio, luoghi di riparo e di risposta, in cui morire). La biblioteca è stata improvvidamente sconvolta, scomposta e sconfitta: venduta a qualche antiquario che ha rivenduto a sua volta. Lo studio di Lorenzo è svanito, come un bicchiere di vetro che si rompe, si polverizza, rivelandosi un nugolo di falene. Due indizi ci aiutano a ricomporre, seppure in astratto, la biblioteca del pittore-sciamano. Il primo lo ricaviamo dal “testamento”: «benedici René Guénon, mio venerato istruttore in terra». L’opera dello studioso francese (che riscuote immacolato successo proprio in questi tempi) è improntata a un proficuo sincretismo religioso. Guénon attraversa, nelle sue ricerche, l’Islam e la tradizione tibetana, l’induismo e il taoismo, l’ebraismo esoterico esplicitato dalla dottrina della Kabbalah, né disdegna di essere ammesso al rito massonico. Il nome di Guénon ci conduce al secondo indizio: Lorenzo Peretti è uno dei giovani “vigezzini di Francia”, radica la sua formazione culturale a Parigi, all’epoca “ombelico del mondo”. In sintonia con le tesi di Guénon, è perciò altamente plausibile che Lorenzo abbia letto Les Grands Initiés di Édouard Schuré, pubblicato nel 1889, in cui sono squadernati prima e con più enfasi di altri i «principi essenziali della dottrina esoterica» (quello fondamentale: «lo spirito è la sola realtà. La materia ne è solo l’espressione inferiore, cangiante ed effimera, il dinamismo nello spazio e nel tempo»). Altrettanto evidente è la conoscenza (o perlomeno la prossimità filosofica) del pensiero teosofico di Rudolf Steiner e degli insegnamenti del maestro armeno Georges Gurdjieff (e magari anche le interpretazioni letterarie che ne diede l’allievo René Daumal). Il sincretismo ha cospicui influssi nelle arti. Ricordo di passaggio che Le elegie duinesi di Rainer Maria Rilke attingono alla dottrina mistica musulmana della “gerarchia celeste”, e che Thomas S. Eliot, chiudendo La terra desolata ci avvisa che «con questi frammenti ho puntellato le mie rovine»: mette in dialogo la profezia biblica (Isaia, Geremia) con Dante Alighieri e Gérard de Nerval, il Pervigilium Veneris con la Brhadaranyaka Upanisad, anelando la pace (Shantih) finale, la fusione di tutte le culture. Entrambe le opere poetiche, esteticamente fondamentali, che sbordano nel testo mistico e sapienziale, sono rese pubbliche nel 1922, data leggendaria per la letteratura occidentale moderna. In sintesi, si affaccia una visione altamente aristocratica della ricerca spirituale, che ammucchia in sovrana libertà creativa tutti i testi sacri (in fondo conducono alla stessa meta), annullando il particolare, il regionalismo religioso, il folklore popolare (benché poi, potenza dei mezzi di comunicazione di massa, il sincretismo, involuto in “new age”, sia diventato esso stesso “pop”, e l’esoterismo un ingente magazzino pubblicitario). Soli predando Dio – magari con la mappa di un guru – disprezzando la viltà dell’uomo.

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Sarebbe perciò fatalmente squalificabile come curioso oggetto dei tempi, voluttuosamente liberty, il “testamento” di Lorenzo Peretti. In realtà, alla luce della coerenza spirituale di Lorenzo “Junior”, il “testamento” va interpretato come una preghiera gnostica. Il testo, per l’arditezza teologica, pronuncia una differenza incolmabile tra la vita terrena, dominata dal male e dalla meschinità («sono caduto nell’abisso della tenebra, dell’immondizia ove brancico desiderandoti»), e l’altezza di Dio, amorevole, condotto dalla compassione. Proprio questo è uno dei criteri che fondano lo gnosticismo. La preghiera di Lorenzo pare estratta di peso da una apocalisse o da un vangelo gnostico, magari l’impressionante poema sapienziale Pistis Sophia, del III secolo dopo Cristo. Uno sguardo più profondo sulla “verve” teologica dello gnosticismo – ambita dagli artisti perché proficuamente creativa: mentre la fede cristiana trova saldezza nella “regolarizzazione” operata da San Paolo, lo gnosticismo muta a seconda della voce e del maestro che lo professa – accade con l’impressionante scoperta dei Codici di Nag Hammadi, riesumati nella località egizia nel 1945. Impossibile che Lorenzo possa aver conosciuto i risultati di questa scoperta.

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Ma ciò che conta, e resta, è la preghiera. Sfoltendo la cultura, i libri e la biblioteca “francese”, rimane l’inno. E qui, curiosamente, l’eclettico Lorenzo si riscopre uno dei Peretti di Toceno, più contadino che stregone “parigino”, più concreto. Affascinante, ad esempio, è il dialogo che Lorenzo intrattiene, spudoratamente commosso, con i morti: «E voi, venerandi progenitori, ormai spogli di questa nostra misera carne, ormai liberi dalle nostre passioni terrene, purificati, illuminati e quindi più vicini alla Verità, indulgete alle molte e gravi mancanze della mia vita, vigilate sul mio avvenire». Mi rassicura di più chi ha rapporti radiosi con i morti, piuttosto che chi si esercita a imbonire retoricamente i vivi. Una famiglia più grande e pronunciata unisce i vivi ai morti. I vivi compiono la loro vita attraverso l’intercessione dei morti (e non viceversa). Sembra, poi, che Lorenzo, nella preghiera-testamento, ritrovi salutare pace con la sua stirpe: chiede aiuto al nonno, e perdono al padre. Sorride. Così, Lorenzo “Junior”, Bernardino e Lorenzo “Senior”, sono ancora insieme, uniti.

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«Oltre le frontiere dell’impassibilità, quando il tuo intelletto, nell’ardente desiderio di Dio, comincia poco alla volta come ad uscire dalla carne, e riesce a scacciare tutti i pensieri causati dai sensi o dalla memoria oppure dal temperamento, via via raggiungendo la pienezza della riverenza e della gioia, puoi allora ritenere di esserti avvicinato ai confini della preghiera». Evagrio Pontico (IV secolo d.C.) nel suo trattato Sulla preghiera traccia una via mistica che conduce fino a Giovanni della Croce – e alla poesia moderna più grande. I confini con l’eresia sono sottili: la preghiera è un dialogo solitario tra l’orante e Dio, eppure questo dialogo non deve andare a discapito di una esistenza in comunità. Insomma, la preghiera solitaria non deve distogliere l’uomo dai suoi doveri “sociali”. L’aristocrazia mistica lascia luogo a una raggiunta umiltà: non ho parole con cui parlare a Dio. Davvero, misticamente, «Per Te il silenzio è lode», come annuncia il Salmo 65. Un sapiente che ha dato impulso enorme alla riflessione intorno alla preghiera è senz’altro Isacco di Ninive (VII secolo d.C.): «Quando uno è stato reso aderente a Dio, senza sosta, nell’effusione continua che avviene nella preghiera, su costui non v’è legge, né canoni o tempi o ore distinte e regolari hanno potere su di lui, ma da allora è al di sopra di tutto ed è presso Dio, senza limite». Isacco rinunciò alla carica vescovile (fu per cinque mesi la guida spirituale della città di Ninive), pronunciando una scelta di vita ascetica, in solitudine, insieme ai rari monaci per il cui conforto avrebbe redatto i propri “discorsi”. «Come non è possibile apprendere l’arte del tiro dell’arco in mezzo ad assembramenti o in piazza, ma in una regione affatto deserta e vuota, luogo adatto alla corsa dei cavalli e al tiro delle frecce, perché la traiettoria corre senza impedimento al bersaglio fissato, così non è possibile che uno apprenda l’arte delle battaglie spirituali e la traiettoria calcolata ad arte che giunge al bersaglio divino; che apprenda l’arte dei pensieri e la sapienza della navigazione spirituale per questo mare terribile e conosca le risorse e le numerose insidie, se non resta in una quiete continua e nel vuoto di ogni cosa da cui la mente sia trattenuta e dissipata o per cui cessi dalla continua supplica. Chi non fa così, cade». Le esortazioni dure di Isacco – la rinuncia della vita e delle ambizioni mondane; il rifugio dal chiasso umano; l’austera solitudine ammainata senza ombra di orgoglio – sembrano ricamate a fuoco sulla schiena di Lorenzo “Junior”.

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Appunto (eretico) sulla preghiera incessante. Il percorso spirituale – e perciò artistico – di Lorenzo “Junior” si pone volutamente in antagonismo, bordeggia l’eresia. In questo viaggio – che delinea una nebbiosa via – tra le suggestioni che evoca il “testamento” di Lorenzo, suggerisco, in inquieta, abbacinante affinità, la vicenda dei Messalliani. La setta, sorta nel confuso e creativo periodo del cristianesimo delle origini, fu condannata come sregolata nel Sinodo di Sida (390 d.C.) e di Costantinopoli (426), per poi ricevere definitiva condanna durante il concilio di Efeso (431). I caratteri peculiari della setta, poi svanita nel vortice del tempo, li conosciamo tramite una folta – benché ambigua e partigiana – letteratura “ortodossa”: di loro hanno scritto Epifanio di Salamina e Teodoreto di Ciro, Filosseno di Mabbug, Timoteo di Costantinopoli e Giovanni Damasceno. Le accuse canoniche (ricorrenti per ogni eresia che passa) di dissolutezza e perversione sessuale sembrano aggiunte dai devoti oratori per speziare la descrizione. In verità, la peculiarità della setta è riassunta nel nome: il siriaco Messalliani e l’analogo greco Euchiti significa “oranti”. Essi, infatti, «attribuivano solo alla preghiera e all’ascesi il potere di liberare davvero l’uomo dal dominio di Satana, e di far giungere all’impassibilità. Prima che si conseguisse tale stato, nel cuore operavano contemporaneamente lo Spirito santo e il demonio: mentre il battesimo, infatti, non valeva a estirpare del tutto l’inabitazione demoniaca, ascesi e preghiera perseverante potevano donare, al termine, la perfetta libertà dalle passioni e quasi una nuova innocenza, così limpida e trasparente da rendere pura, ormai, qualsiasi azione» (Maria Benedetta Artioli, in Pseudo-Macario. La grande lettera, Gribaudi, Torino 1989). La colpa dei Messalliani era non solo quella di contraddire San Paolo (che nella Prima lettera ai Corinti, capitolo 14, sminuisce il valore dei doni spirituali e della singolare creatività religiosa, imponendo che «tutto si faccia per l’edificazione» della neonata comunità ecclesiastica), ma di ritenere che l’uomo, da solo, potesse procurarsi la salvezza, qui, in questa terra, facendo esperienza sensibile di Dio attraverso la preghiera. Tra i documenti “messalliani” più imponenti, unici, sono i discorsi dello Pseudo-Macario (V secolo; conosciuto anche come Macario-Simeone), che oltre a definire i punti fondamentali della setta («Pietra angolare di ogni sollecitudine buona e vertice delle opere rette è la preghiera perseverante, per mezzo della quale ogni giorno possiamo acquistare anche le altre virtù chiedendole a Dio»), grazie a una abbondante abilità retorica, ci conducono nella guerra dell’anima: «Come puoi vedere carri e cavalli incrociarsi, spingendosi tra loro – ciascun carro usa astuzie ed espedienti contro l’altro carro, in modo da farlo cadere e vincere – così avviene nel cuore di coloro che combattono la gara contro i cattivi pensieri che fanno guerra all’anima, mentre Dio e gli angeli osservano il combattimento». Di questa guerra totale partecipa anche Lorenzo “Junior”, nei punti più potenti della sua preghiera: «Liberami da cupidigia di beni terreni dall’ira dall’odio dal rancore, dalla seduzione di pensieri di libidine o lussuria dalla superbia od orgoglio da gola, da ingiustizia, da vanità, da invidia. Padre toglimi dalla tenebra ed illuminami, toglimi dall’immondizia e purificami, e, così, illuminato e purificato fa’ ch’io viva bene il resto dei giorni che Tu mi lasci, al termine dei quali dammi una morte non improvvisa felice, calma, serena tutta cosciente in Te». Tuttavia, lo Pseudo-Macario ha una visione luminosa (e non gnostica) del creato e dell’uomo, riducendo la battaglia contro il male a una vicenda personale dell’orante contro i contorti pensieri che le sue viscere abissali producono, poiché «se dici che Satana ha il proprio luogo e Dio il suo, dici che Dio non è presente in ogni cosa, ma circoscritto al luogo in cui dimora. Noi invece diciamo che Dio è infinito e non circoscritto, e che ogni cosa è in lui, e che il bene non è contaminato dal male». Anche il male, in questa terra, ha un suo impeto salvifico, una sua santa necessità («Dio permise che il male esistesse, come esercizio per l’uomo»), e «le creature sono stabilite nel proprio ordine, e colui che le ha fatte, presente in esse, è Dio». I dialoghi dello Pseudo-Macario, setacciati dalle tracce di eresia, congiunti al pensiero di Evagrio Pontico e dei Padri del Deserto, sono fondamentali per capire la dottrina ascetica (ortodossa) dell’esicasmo, praticata sul Monte Athos, scandita dal pensiero di Gregorio Palamas (XIV secolo). L’esicasmo rinnova la disciplina della “preghiera incessante”, attraverso motivi e metodi propri della sapienza orientale (lo yoga, ad esempio): è per questo una mistica che fa da ponte tra il pensiero religioso d’Occidente (riassunto nella Chiesa Cattolica Romana) e quello d’Oriente (nelle estreme propaggini di buddhismo e taoismo).

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Soltanto un occhio distratto potrebbe interpretare le parole con cui Lorenzo “Junior” conclude la sua preghiera come un mucchio di astrusità orientali, di fantocci indù. In realtà esse fungono da bussola, da codice che ci conduce alle radici del pensiero spirituale di Lorenzo. L’artista delinea un percorso di liberazione-purificazione condotto tramite la preghiera: l’uomo “pneumatico” attraversando il trauma della mortalità può riassumere in sé i contrari, sperimentando ciò che è assoluto, indifferente a ogni divisione. Una chiave di lettura ci è fornita dalla Bhagavadgita, in cui all’asceta è imposto di addomesticare la natura materiale (prakrti) che «è costituita da tre elementi fondamentali: sattva, leggero, luminoso e piacevole; rajas, mobile, dinamico e doloroso; tamas, inerte, ottuso ed ostacolatore». Congiunti all’ahamkara, «il senso dell’io, che associa il conoscibile all’io e al mio», danno origine ai sensi. Il compito dell’uomo spirituale è riassunto in alcuni versi memorabili, che scandiscono il poemetto: «trascendi le coppie dei contrari, stai fermo nella purezza, abbandona il possesso, domina te stesso. […] Occupati solo dell’azione, non occuparti mai dei frutti. non essere mai spinto ad agire dal frutto delle tue azioni, né, d’altro lato, abbi attaccamento per l’inazione. Compi le tue azioni, o Arjuna, stando ben fermo nello yoga, avendo abbandonato l’attaccamento. Sii uguale nel successo e nell’insuccesso. Miserabili sono coloro che son mossi dal desiderio dei frutti». Dimorando nella quiete priva di contrari e di contrasti, «la situazione dell’anima in questo stato di isolamento è ineffabile; di là dal piacere e dal dolore, in una coscienzialità metempirica, paragonata allo stato di sonno profondo» (per tutti i riferimenti: Raniero Gnoli, Bhagavadgita. Il Canto del Beato, Rizzoli, Milano 1987). Il viaggio spirituale in cui Lorenzo “Junior” ci guida nell’abisso delle passioni umane: al posto di allontanarle (vanità vescovile dei benpensanti), ci è chiesto di farcene carico, addomesticandole. Solo così si può giungere al precipizio della purezza. Il “codice mistico” di Lorenzo è dispiegato nel corso della preghiera, quando egli rivolge a Dio le parole più alte: «Benedici i miei nemici. Togli dai nostri cuori e dalle nostre menti l’odio, il rancore, la volontà di nuocere. Versa su di noi la Tua grazia e la Tua pace profonda divina Eterna in Te».

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Eccentrico e folle il destino di Lorenzo Peretti “Junior”. Pittore antagonista, misantropo, accusato di satanismo, fautore di ogni voluttà, fuori dal tempo e dall’uomo (come a dirci: finché mi fraintendono sono graziato, riesco a scoprire chi sono). Nel “testamento” delinea la mappa che dal turbine del male sfocia nel bene. Ci salva, svanendo nel bene. E per accettare il bene occorre il coraggio di un artista.



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