Tra la forza
propulsiva di Cavalli e la potenza esecutiva di Fornara c’è di
mezzo il matto, il jolly, l’artista davvero inclassificabile, per
alcuni insostenibile, puramente geniale, per questo volenterosamente
incompreso: Lorenzo Peretti Junior. Proprio lui, con le sue
eccentricità votate all’estremo, con l’ansia priva di ambiguità
di andare fino in fondo, pregno di violenza iconoclasta (“uccide”,
pur senza mai sconfessarli, il maestro Cavalli e il sodale Fornara) e
di istrionica nobiltà, proprio lui, Lorenzo Peretti Junior,
raffigura nel suo percorso da pittore selvatico, da monaco folle,
l’artista vigezzino, geniale, scontroso, in costante, continua
ostilità con il mondo claustrofobico e appagato dell’arte.
Giungendo allo studio di Fornara tramite le pubblicazioni di Dario
Gnemmi, rintracciai nella data del 1922 (che coincide con l’uscita
ufficiale di Fornara dai club dell’arte italica, prediligendo una
vita di luminosa solitudine, senza galleristi-avvoltoi né carrozzoni
pubblicitari o corazzate politiche) un momento esteticamente ed
eticamente prodigioso, promettente: quella scelta, a suo modo
inevitabile, di austera reclusione donava gloria e premio al genio di
Fornara. La luce di quella scelta dava splendore alle opere
dell’artista, più genuine, autentiche, personali. Eppure,
staccatomi da Fornara, tornando alla quiete contemplativa di Ciolina,
alla rasserenante grazia di Rastellini, ho sbattuto atrocemente
contro Lorenzo Peretti Junior. Pittore brusco, volutamente difficile,
presuntuoso e vigile, per la tecnica utilizzata e per la scelta
clamorosa di nascondere fin da subito, dalla fine dell’Ottocento
(dopo l’apprendistato alla “Rossetti Valentini” e il canonico
viaggio in Francia, magari dopo aver veduto l’amico Fornara cadere
tra le grinfie del divisionismo), le proprie opere, che vivono quasi
tutte nel senza tempo del “senza data”, come le incisioni
parietali di un maestro dei primordi, come scavi che ci giungono
dall’estenuante passato o da un futuro fatto di rari sopravvissuti,
Lorenzo è artista che rischia di essere appena intravisto. Ricordo
che restai affascinato dall’intuizione critica di Gnemmi, decisiva
per ogni strategia artistica: «Se un artista può operare per sé,
quasi sfidando i limiti del proprio sapere o gli steccati apposti
dalla critica e dagli inevitabili giudizi di un pubblico in molti
casi privo di formazione e d’informazione; se un artista si
contenta di scoprire e, non avendo bisogno di vendere, non mostra e
non fa vedere; se un artista è talmente colto da aver scoperto
l’essenza stessa della sua volontà creativa in potenza e di
volerla poi tradurre in atto nella piena libertà da vincoli di
poetica comune o di interventi in collettive, quell’artista, a
costo di essere definito misantropo, ha forse scoperto il principio
del suo equilibrio». È un concetto duro, determinante: l’arte
parte dalla memorabile solitudine del singolo per rivolgersi a un
altro – senza quest’altro ne viene sconfitta, alterata
irrimediabilmente. Lorenzo Peretti Junior all’apparenza disintegra
il referente della sua opera, per questo i suoi quadri sembrano
referti di un mondo travolto – cenni su un’arcadia pagana e
perduta (l’ammaliante Bosco dei druidi, che si rivela anche
nel Sottobosco pacato, dove alberi, fiume e cespugli sembrano
creature mobili, cinghiali, falchi o giaguari extraterreni),
frattaglie di paesi rovinati, sfatti dall’incuria e
dall’ingordigia, come nel magnifico Oratorio, dove la
piccola chiesa, bianca, perfetta come la Gerusalemme celeste,
ondeggia sopra campi gialli e discinti, simili al deserto, e alberi
ridotti a fili neri, di ferro, grovigli che inchiodano il cielo alla
sua colpa. C’è poi la leggenda che riguarda Lorenzo Peretti
Junior, un pittore tanto certo della sua grandezza da permettere, da
volere che lo si considerasse meno che un pittore, un pazzo e un
perdigiorno. Di Lorenzo non esistono immagini. Lo conosciamo
attraverso il ritratto che nel 1890 gli fece Fornara: ha diciannove
anni, capelli aperti in mezzo, baffi sparati, e uno sguardo violento,
occhi stretti e curvi, come un malavitoso, uno che per denaro sfida a
duello i deboli e seduce le loro donne, spaventandole. C’è anche
una fotografia: ritrae, in piedi, Giovanni Battista Ciolina, la
moglie, in ginocchio, e la piccola figlia dei due; di fianco alla
bambina è seduto lui, con il cappello, i baffi e la barba. La foto è
corrosa proprio sul suo volto, di cui non s’individuano gli occhi,
come un segno ambiguo di cecità (occhi non adatti a questa terra).
Inoltre, c’è l’anarchismo culturale diffuso: Lorenzo Peretti
Junior persegue una via artistica tutta sua, corroborata da letture
sinistre, complesse. La sua biblioteca – recentemente smembrata,
con gravissimo danno per la ricostruzione del suo percorso estetico –
è una delle più imponenti e bizzarre della Val Vigezzo, «l’incontro
con il pensiero dello Steiner e con Kardec, la lettura di Eliphas
Lévi e dei testi buddisti e yoga, il percorso delle filosofie
occidentali non sistematiche, portarono l’artista a una libertà
interiore ormai priva di vincoli razionalistici, ma espressa in pure
intuizioni» (Gnemmi). La pubblicazione e la parziale interpretazione
del suo “Testamento spirituale” forniranno una ulteriore chiave
di lettura per comprendere questo artista geniale e misterioso, che
pare una creatura letteraria di Jorge Luis Borges – decisamente
diverso dal padre Bernardino, elegantissimo e severo, curato, sulla
cui fotografia, nel 1894, il figlio si esercita in un ritratto mosso,
capace di rendere più benevolo e inquieto il genitore.
Per questo,
senza cadere nel cratere del giudizio, il Vaso di fiori di
Lorenzo Peretti Junior è drasticamente diverso da quello raffigurato
da Cavalli e da Fornara. Il vaso è deposto in una scena scabra,
grigia, con alcuni frutti che lo accerchiano, mentre dalle sue
interiora sbucano aste, rami, fiori che sembrano cerchi di bronzo. È
come se osservassimo la scena da uno specchio ustionato dal tempo,
con il vetro che comincia a sciogliersi dall’interno, corrompendo
una visione lucida, tersa. Così, l’immagine pare remota – oppure
la profezia di un tempo a venire – così non è tanto l’eternità
a conquistarci, ma qualcosa di più aspro e pittoricamente difficile:
Lorenzo Peretti Junior trova il punto di fusione tra il passato e il
futuro, scopre il senza tempo della memoria, della previsione. Ciò
che è stato si mescola con ciò che sarà, e il pittore edifica il
suo regno sopra la cascata immane del tempo – ha il suo immacolato
rifugio.
Allo stesso
modo, gli squarci naturali, sempre truci, lividi, colti in un
compiuto istante di consapevolezza nel turbine della mania, della
follia, come Paesaggio grigio o l’analogo Paesaggio,
privi di malinconia e violento commiato, mostrano la forma
vibrante e fiera delle cose: le montagne sembrano il dorso di un
cavallo preso in corsa, i sentieri le zanne di una invincibile tigre.
Peretti Junior ha scoperto che non c’è confine tra le cose, ma
soltanto scambio di forme, che il tempo è una bizzarria creata
dall’uomo, e che durerà quanto l’uomo, che la morte è già
stata, è già sconfitta: per questo non è necessario sperare nella
resurrezione, siamo, in fondo, già tutti dei risorti, degli inquieti
sopravvissuti. È una conquista artistica estrema, che solo la
reclusione concede – e solo in rari casi – che trascina le opere
di Peretti Junior in ambiti che travalicano l’arte: esse vanno
apprese, propriamente, come scritture.
Testo di
Davide Brullo
Tratto da
Appassionata incompetenza. I primi cinquant'anni della Collezione
Poscio
Vol. a c. di
Marcovinicio, M.me Webb editore, Domodossola 2011
Commenti
Posta un commento