Davide Brullo: Lorenzo Peretti Jr. (da "Appassionata incompetenza", 2011)


Tra la forza propulsiva di Cavalli e la potenza esecutiva di Fornara c’è di mezzo il matto, il jolly, l’artista davvero inclassificabile, per alcuni insostenibile, puramente geniale, per questo volenterosamente incompreso: Lorenzo Peretti Junior. Proprio lui, con le sue eccentricità votate all’estremo, con l’ansia priva di ambiguità di andare fino in fondo, pregno di violenza iconoclasta (“uccide”, pur senza mai sconfessarli, il maestro Cavalli e il sodale Fornara) e di istrionica nobiltà, proprio lui, Lorenzo Peretti Junior, raffigura nel suo percorso da pittore selvatico, da monaco folle, l’artista vigezzino, geniale, scontroso, in costante, continua ostilità con il mondo claustrofobico e appagato dell’arte. Giungendo allo studio di Fornara tramite le pubblicazioni di Dario Gnemmi, rintracciai nella data del 1922 (che coincide con l’uscita ufficiale di Fornara dai club dell’arte italica, prediligendo una vita di luminosa solitudine, senza galleristi-avvoltoi né carrozzoni pubblicitari o corazzate politiche) un momento esteticamente ed eticamente prodigioso, promettente: quella scelta, a suo modo inevitabile, di austera reclusione donava gloria e premio al genio di Fornara. La luce di quella scelta dava splendore alle opere dell’artista, più genuine, autentiche, personali. Eppure, staccatomi da Fornara, tornando alla quiete contemplativa di Ciolina, alla rasserenante grazia di Rastellini, ho sbattuto atrocemente contro Lorenzo Peretti Junior. Pittore brusco, volutamente difficile, presuntuoso e vigile, per la tecnica utilizzata e per la scelta clamorosa di nascondere fin da subito, dalla fine dell’Ottocento (dopo l’apprendistato alla “Rossetti Valentini” e il canonico viaggio in Francia, magari dopo aver veduto l’amico Fornara cadere tra le grinfie del divisionismo), le proprie opere, che vivono quasi tutte nel senza tempo del “senza data”, come le incisioni parietali di un maestro dei primordi, come scavi che ci giungono dall’estenuante passato o da un futuro fatto di rari sopravvissuti, Lorenzo è artista che rischia di essere appena intravisto. Ricordo che restai affascinato dall’intuizione critica di Gnemmi, decisiva per ogni strategia artistica: «Se un artista può operare per sé, quasi sfidando i limiti del proprio sapere o gli steccati apposti dalla critica e dagli inevitabili giudizi di un pubblico in molti casi privo di formazione e d’informazione; se un artista si contenta di scoprire e, non avendo bisogno di vendere, non mostra e non fa vedere; se un artista è talmente colto da aver scoperto l’essenza stessa della sua volontà creativa in potenza e di volerla poi tradurre in atto nella piena libertà da vincoli di poetica comune o di interventi in collettive, quell’artista, a costo di essere definito misantropo, ha forse scoperto il principio del suo equilibrio». È un concetto duro, determinante: l’arte parte dalla memorabile solitudine del singolo per rivolgersi a un altro – senza quest’altro ne viene sconfitta, alterata irrimediabilmente. Lorenzo Peretti Junior all’apparenza disintegra il referente della sua opera, per questo i suoi quadri sembrano referti di un mondo travolto – cenni su un’arcadia pagana e perduta (l’ammaliante Bosco dei druidi, che si rivela anche nel Sottobosco pacato, dove alberi, fiume e cespugli sembrano creature mobili, cinghiali, falchi o giaguari extraterreni), frattaglie di paesi rovinati, sfatti dall’incuria e dall’ingordigia, come nel magnifico Oratorio, dove la piccola chiesa, bianca, perfetta come la Gerusalemme celeste, ondeggia sopra campi gialli e discinti, simili al deserto, e alberi ridotti a fili neri, di ferro, grovigli che inchiodano il cielo alla sua colpa. C’è poi la leggenda che riguarda Lorenzo Peretti Junior, un pittore tanto certo della sua grandezza da permettere, da volere che lo si considerasse meno che un pittore, un pazzo e un perdigiorno. Di Lorenzo non esistono immagini. Lo conosciamo attraverso il ritratto che nel 1890 gli fece Fornara: ha diciannove anni, capelli aperti in mezzo, baffi sparati, e uno sguardo violento, occhi stretti e curvi, come un malavitoso, uno che per denaro sfida a duello i deboli e seduce le loro donne, spaventandole. C’è anche una fotografia: ritrae, in piedi, Giovanni Battista Ciolina, la moglie, in ginocchio, e la piccola figlia dei due; di fianco alla bambina è seduto lui, con il cappello, i baffi e la barba. La foto è corrosa proprio sul suo volto, di cui non s’individuano gli occhi, come un segno ambiguo di cecità (occhi non adatti a questa terra). Inoltre, c’è l’anarchismo culturale diffuso: Lorenzo Peretti Junior persegue una via artistica tutta sua, corroborata da letture sinistre, complesse. La sua biblioteca – recentemente smembrata, con gravissimo danno per la ricostruzione del suo percorso estetico – è una delle più imponenti e bizzarre della Val Vigezzo, «l’incontro con il pensiero dello Steiner e con Kardec, la lettura di Eliphas Lévi e dei testi buddisti e yoga, il percorso delle filosofie occidentali non sistematiche, portarono l’artista a una libertà interiore ormai priva di vincoli razionalistici, ma espressa in pure intuizioni» (Gnemmi). La pubblicazione e la parziale interpretazione del suo “Testamento spirituale” forniranno una ulteriore chiave di lettura per comprendere questo artista geniale e misterioso, che pare una creatura letteraria di Jorge Luis Borges – decisamente diverso dal padre Bernardino, elegantissimo e severo, curato, sulla cui fotografia, nel 1894, il figlio si esercita in un ritratto mosso, capace di rendere più benevolo e inquieto il genitore.
Per questo, senza cadere nel cratere del giudizio, il Vaso di fiori di Lorenzo Peretti Junior è drasticamente diverso da quello raffigurato da Cavalli e da Fornara. Il vaso è deposto in una scena scabra, grigia, con alcuni frutti che lo accerchiano, mentre dalle sue interiora sbucano aste, rami, fiori che sembrano cerchi di bronzo. È come se osservassimo la scena da uno specchio ustionato dal tempo, con il vetro che comincia a sciogliersi dall’interno, corrompendo una visione lucida, tersa. Così, l’immagine pare remota – oppure la profezia di un tempo a venire – così non è tanto l’eternità a conquistarci, ma qualcosa di più aspro e pittoricamente difficile: Lorenzo Peretti Junior trova il punto di fusione tra il passato e il futuro, scopre il senza tempo della memoria, della previsione. Ciò che è stato si mescola con ciò che sarà, e il pittore edifica il suo regno sopra la cascata immane del tempo – ha il suo immacolato rifugio.
Allo stesso modo, gli squarci naturali, sempre truci, lividi, colti in un compiuto istante di consapevolezza nel turbine della mania, della follia, come Paesaggio grigio o l’analogo Paesaggio, privi di malinconia e violento commiato, mostrano la forma vibrante e fiera delle cose: le montagne sembrano il dorso di un cavallo preso in corsa, i sentieri le zanne di una invincibile tigre. Peretti Junior ha scoperto che non c’è confine tra le cose, ma soltanto scambio di forme, che il tempo è una bizzarria creata dall’uomo, e che durerà quanto l’uomo, che la morte è già stata, è già sconfitta: per questo non è necessario sperare nella resurrezione, siamo, in fondo, già tutti dei risorti, degli inquieti sopravvissuti. È una conquista artistica estrema, che solo la reclusione concede – e solo in rari casi – che trascina le opere di Peretti Junior in ambiti che travalicano l’arte: esse vanno apprese, propriamente, come scritture.

Testo di Davide Brullo
Tratto da Appassionata incompetenza. I primi cinquant'anni della Collezione Poscio
Vol. a c. di Marcovinicio, M.me Webb editore, Domodossola 2011

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